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Città Impresa

Il Premio

Il Premio, promosso da ItalyPost e CUOA Business School, si propone di favorire la produzione e la diffusione di testi, materiali multimediali e ricerche che raccontino e analizzino la peculiarità del sistema produttivo italiano con la finalità di promuovere una “nuova narrazione” dei sistemi imprenditoriali.

Il Premio ha lo scopo di favorire una crescita culturale, promuovendo una moderna cultura dʼimpresa in grado di stimolare lo sviluppo del tessuto industriale italiano ed in particolare delle PMI, nel rispetto di unʼetica condivisa da tutti, imprenditori e manager, lavoratori e stakeholder, ciascuno per il proprio ruolo e le proprie responsabilità. Nella convinzione che un sistema generale di valori e identità riconosciuti sia il punto di partenza per costruire insieme un nuovo futuro.

Le tre sezioni

Il Premio si articola in tre sezioni riservate a categorie diverse di opere che a pari merito, ma a titolo diverso, rispondano agli obiettivi del Premio:

  1. sezione editoria: romanzi, opere di saggistica, racconti e raccolte di racconti, graphic novel, fumetti, cataloghi fotografici, ovvero ogni opera già pubblicata, che affronti e sviluppi i temi oggetto del Premio
  2. sezione multimediale: video, film, trasmissioni televisive o radiofoniche, brani musicali, podcast, e ogni altro materiale multimediale che affronti in maniera approfondita e originale le tematiche oggetto del Premio
  3. sezione ricerca: saggi, progetti di ricerca, tesi e studi inediti che abbiano sviluppato una moderna interpretazione e teorizzazione della cultura dʼimpresa e rispondano al filone di ricerca individuato per ogni edizione del Premio.

La scadenza per l’invio delle candidature è il 30 settembre 2020.

La Giuria

Il Premio è composto da tre organi di selezione: Comitato dei Selezionatori, Comitato Tecnico e Giuria dei Lettori. 

Il Comitato dei Selezionatori è presieduto da Antonio Calabrò, presidente Musei dʼImpresa, e composto da:

  • Marco Bettiol, Università di Padova
  • Magda Bianco, titolare Servizio Tutela dei clienti e antiriciclaggio Banca dʼItalia
  • Paola Dubini, Università Bocconi, Milano
  • Giuseppe Lupo, scrittore e commentatore de Il Sole 24 Ore
  • Daniele Manca, vicedirettore Corriere della Sera
  • Franco Mosconi, Università di Parma
  • Ivana Pais, Università Cattolica, Milano
  • Raffaella Polato, giornalista Corriere della Sera
  • Francesco Timpano, Università Cattolica, Piacenza
  • Luca Vignaga, amministratore delegato Marzotto Lab
  • Federico Visentin, presidente Mevis e Fondazione Cuoa
  • Filiberto Zovico, fondatore ItalyPost

Il Comitato Tecnico sarà nominato dalla Direzione del Premio nomina e sarà composto da 5 specialisti con lo specifico compito di stabilire lʼammissibilità al Premio delle opere proposte.

La Giuria dei Lettori è nominata dal Comitato Tecnico ed è composta da 200 membri tra imprenditori, docenti, rappresentanti delle associazioni di categoria e degli istituti di ricerca, giovani laureandi di facoltà attinenti ai temi del Premio, che soddisfino il criterio di distribuzione geografica e le quote di appartenenza a un ambito professionale e disciplinare individuati dal Comitato dei Fondatori e Selezionatori.

Città Impresa, ultima giornata per il Festival dei Territori Industriali. Sale affollate per i protagonisti della seconda giornata: Tremonti, il ministro Moavero e Giavazzi

Si avvia verso la conclusione il Festival Città Impresa, che sta radunando a Vicenza in questi giorni ospiti ed esperti di primo piano per esplorare le questioni chiave dell’economia e della società contemporanee, tra cui il rapporto tra infrastrutture e crescita, la trasformazione dell’economia globale, il rischio di recessione italiana, il rebus delle autonomie regionali, il Nord dimenticato e la rivoluzione digitale dal punto di vista delle imprese.

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Bergamo Città Impresa, infrastrutture e crescita al centro del convegno di preapertura del festival

Giovedì 25 ottobre, alle ore 18, nel terminal partenze dell’Aeroporto di Milano Bergamo, l’anteprima della seconda edizione del Festival, con un confronto con Dario Di Vico, Emilio Bellingardi, Paolo Emilio Signorini e Paolo Uggè su “Logistica e infrastrutture: il vocabolario della crescita”. A chiudere l’incontro l’assessore regionale alle Infrastrutture, Claudia Maria Terzi.

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Le imprese e le sfide per l’Italia e l’Europa al centro della seconda edizione di Bergamo Città Impresa (26-28 ottobre)

Le imprese, l’Italia, l’Europa e le sfide che le attendono alla fine di questo 2018 e in un 2019 cruciale: sarà all’insegna di questi temi la seconda edizione del Bergamo Città Impresa, edizione autunnale del Festival dei Territori Industriali diretto da Dario Di Vico, che, dopo l’appuntamento primaverile di Vicenza e quello speciale di Piacenza, torna nella città orobica dal 26 al 28 ottobre. Read more

Diamanti: «Il populismo? Si incrocia con la democrazia»

Il Mattino di Padova / di Roberta Paolini

Il populismo come cifra del presente, l’attitudine alla crescita e poi alla normalizzazione di un movimento che diventa politica e si impone come distributore di utopie, che annienta i corpi intermedi e si insinua come estremismo del senso comune in una modernità distrutta dai bit nella sua realtà concreta e ricomposta in una realtà altra, digitale, illusoriamente libera, individualistica e tremendamente sola. Una realtà vissuta come eu-topica e nostalgica ma che rivela la sua base atopica, il suo spaesamento.

Ilvo Diamanti ne ha scritto a quattro mani con il sociologo Marc Lazard, il più attento analista francese dei fatti politici italiani, l’hanno chiamata Popolocrazia, intitolando il loro ultimo libro. Un titolo che in netta antitesi con il termine più nobile “democrazia” e indica, al contrario, un potere immediato. Il passaggio da democrazia rappresentativa a democrazia diretta è la popolocrazia.

Sabato al Teatro Olimpico di Vicenza il direttore de il Mattino di Padova, la tribuna di Treviso, la Nuova di Venezia e Mestre e del Corriere delle Alpi, Paolo Possamai ne ha discusso insieme al politologo e sociologo italiano Diamanti e la storica Karoline Roerig all’interno de Il Festival Città Impresa. Ne sono emersi alcuni tratti distintivi che partendo dalle analisi puntuali di Diamanti disegnano i contorni e le destinazioni del successo di partiti come il Movimento 5 Stelle e la Lega. «Il populismo viene usato spesso come concetto indefinito – dice Diamanti – lo utilizziamo con la sua valenza prescrittiva e non descrittiva.

Nel pronunciare la parola si dà un giudizio, ciò che non ci piace è populista. Dimenticando che la base semantica è il suo riferimento al popolo, al demos». È quel sentimento di antipolitica che in Italia, come ricorda Possamai, «diede origine negli anni Quaranta al Fronte dell’Uomo qualunque, che raccoglieva il consenso di quelli che non si sentivano rappresentati». Tre sono le colonne che supportano il populismo: «La critica delle élite, la domanda di confini, se non esiste un altro, uno straniero, che definisca non esiste il populismo», ma gli altri sono anche l’establishment, nella sua forma compiuta e globalizzata: l’Unione Europea. «Infine – dice Diamanti – la critica alla democrazia rappresentativa».

L’utopia digitale spinge infatti a credere che sia possibile ricreare l’Agorà, «il mito di poter ricostruire la piazza e dare vita ad una democrazia immediata, privata di corpi intermedi, una democrazia diretta». Questa sfiducia nel presente ribadisce Diamanti alimenta i movimenti e i partiti populisti, è il loro carburante, perché dà voce a coloro «che si sentono periferie rispetto al potere». «Eppure in Francia ha vinto un campione dell’establishment come Emmanuel Macron», fa notare Possamai. La risposta di Diamanti e Roering destabilizza: sia Macron che Angela Merkel, emanazioni del potere costituito, hanno mutuato le categorie populiste per contrastare l’avanzata dei movimenti alternativi al sistema. Ed hanno vinto per questo. Di più, hanno personificato la loro offerta politica:«Il populismo è il partito dei capi, dei leader in cui ci si può identificare» dice Diamanti. E così En Marche!, il partito di Macron ripropone proprio le iniziali del nome del presidente francese EM. Mentre la Cancelliera diventa la garanzia per la Germania con la sua Grosse Koalition.Ma se il populismo contagia l’establishment, a sua volta partiti come il Movimento 5 Stelle ammorbidiscono i toni e si “normalizzano”. «È la controdemocrazia cristiana – spiega Diamanti – il partito di massa che opera in Italia con una trasversalità politica assoluta, assorbendo voti a destra e a sinistra, il populismo non è più deprecabile è incrociato con la democrazia».

I cambiamenti nella pubblica amministrazione, una storia senza fine

Di Giovanni Costa, amministratore Intesa Sanpaolo, Università di Padova

I rapporti tra Pubbliche amministrazioni e imprese non sono ma stati tranquilli. E continuano a essere percepiti come negativi anche in presenza di innegabili miglioramenti. Che evidentemente non sono considerati sufficienti.

Quello che impedisce un allineamento tra le procedure amministrative e i bisogni delle imprese è anzitutto il gap tecnologico e i diversi criteri di valutazione della performance. E’ da tempo partita una trasformazione digitale che investe le relazioni sociali, economiche e politiche, private e pubbliche, che annulla le tradizionali dimensioni spazio-temporali e dà vita a una nuova geometria con la quale si sta disegnando un futuro capace di suscitare angosce occupazionali ed entusiasmi progettuali. Un futuro fatto di intelligenza artificiale, macchine che apprendono, robot che cooperano con l’uomo potenziandone le capacità. E noi siamo ancora alle prese con i tempi della giustizia, la durata del procedimento amministrativo, l’opacità delle procedure e i conflitti di competenze.

E’ possibile che l’ondata tecnologica rimuova i problemi alla radice rendendo superflua la ricerca di soluzioni che nascerebbero già morte. Ma non sottovalutiamo l’inerzia istituzionale e la sua capacità di arrestare, ritardare, distorcere l’impatto trasformatore. Il processo va gestito e non subìto.

Alla ricerca del tempo perso

Quello del tempo è il punto di maggiore crucialità: i tempi della giustizia, soprattutto quella civile; il tempo dei procedimenti, i tempi di lavoro e così via. La Legge 241/1990 e la successiva n.15/2005 hanno notevolmente innovato in tema di tempi e di responsabilità del procedimento anche se non si sono dimostrate risolutive. Spesso, alla ricerca di giustificazioni, i responsabili imputano la lunghezza dei tempi alle carenze di organico. Raramente è così. Il più delle volte dovrebbero essere rivisti radicalmente servizi-prodotti-processi.

E’ incredibile quali economie si possano ottenere ripensando l’organizzazione e lo stesso prodotto-servizio in funzione del tempo. Si pensi, per fare un esempio, al cambio delle gomme in un’automobile. Per cambiare una sola ruota, un automobilista impiega alcune decine di minuti, un meccanico qualche minuto e un team di Formula 1 circa due secondi per tutte quattro le ruote e il pieno di benzina. Non è solo una questione di risorse impiegate: circa 20 uomini. Il risultato deriva soprattutto del fatto che l’auto, la ruota, gli attrezzi sono stati progettati in funzione della velocità del pit stop. Non facciamoci deviare dall’esempio, magari pensando all’incidente di Raikonnen all’ultimo Gran Premio al Bahrain.

Mentre molti Comuni stanno cercando di accelerare il rilascio della carta d’identità elettronica, l’introduzione del Sistema pubblico di identità digitale (Spid) che si ottiene comodamente da casa in pochi minuti potrebbe assolvere molte funzioni del documento di identità tradizionale, cartaceo o elettronico che sia. In attesa che la biometria con il riconoscimento facciale e l’uso di altri parametri corporei superi in molti casi la necessità di strumenti di mediazione certificatoria tra l’individuo e la sua identità.

Invece di razionalizzare il processo di produzione si cambia radicalmente il “prodotto”. Amazon evade un ordine in meno di 24 ore perché ha ridisegnato l’interfaccia azienda-clienti-fornitori, i magazzini, la logistica in funzione del fatto che il tempo di consegna entra nel valore del prodotto. Alcune banche oggi consentono il bonifico a esecuzione istantanea in luogo degli svariati giorni prima necessari perché hanno (finalmente) metabolizzato la rivoluzione della moneta digitale e ridisegnato il servizio incorporando il valore del tempo.

Di questo ha consapevolezza il management pubblico che quando è messo nelle condizioni di decidere ottiene risultati notevoli (si pensi a certi servizi dell’Inps o all’Unico precompilato dell’Agenzia delle Entrate). Il fatto è che spesso è il legislatore che entra più o meno consapevolmente in dettagli organizzativi, in modalità di controllo, in ricerca di garanzie che non rispondono a una logica di efficienza e di efficacia. E’ difficile eseguire in maniera efficace ed efficiente in un processo tortuoso e irrazionale nel quale la variabile tempo non entra mai come un valore individuale e collettivo, privato e pubblico da perseguire. E’ necessario che il legislatore si limiti a definire obiettivi e pochi e semplici criteri di esecuzione e lasci alla struttura direzionale di occuparsi dell’organizzazione.

Ruoli politici e ruoli direzionali

Questo pone il problema dei ruoli direzionali nelle pubbliche amministrazioni che non è mai stato affrontato con un approccio corretto. I vari tentativi di privatizzare il rapporto di pubblico impiego raramente hanno superato la soglia della enunciazione di principio e pienamente metabolizzato l’idea che un conto è l’esercizio di poteri sovrani e un conto è l’erogazione di servizi alle persone e alle imprese.

Usando un approccio organizzativo, potrebbe essere utile riprendere sia la separazione tra direzione politica e direzione amministrativa sancita dal D.Lgs 29/1993 sia l’ipotesi federalista. In astratto, il Federalismo è un modello che si attaglia non solo alle questioni fiscali o ai rapporti tra Stato e Regioni ma anche alle problematiche organizzative generali perché afferma l’esigenza di affrontare e risolvere i problemi là dove nascono, mobilitando e responsabilizzando le risorse e gli attori a diretto contatto con i problemi. Afferma anche l’esigenza di mantenere a livello centrale la costruzione del senso complessivo dell’azione pubblica. Il potere centrale è l’altra faccia dell’autonomia e deve essere abbastanza forte e concentrato da consentire di affrontare la complessità dei problemi, ma non così concentrato da inibire l’iniziativa, la responsabilità e le competenze di tutti gli attori.

La concentrazione di potere riguarda anche i ruoli direzionali, che invece vengono sistematicamente depotenziati come nel caso della creazione di autorità esterne alla linea gerarchica di valutazione del personale che non mi pare vada nel senso di un recupero e una valorizzazione del potere e del ruolo direzionale. Ancora una volta il cambiamento e la ricerca di prestazioni migliori, vengono interpretate come un processo giudiziario (trial) presidiato da autorità terze e non come un processo organizzativo (process) presidiato dal management. E anche la recente riforma Madia sembra preoccuparsi più di come poter licenziare i furbetti assentisti (finalità peraltro lodevole) che di come far lavorare su un diverso concetto di servizio il personale presente. E’ molto improbabile che questo processo organizzativo venga messo in moto da meccanismi di valutazione esterni al ruolo direzionale che viene invece così delegittimato e depotenziato.

Operare ristrutturazioni, spostare persone con le loro famiglie, aumentare la produttività, cambiare il modo di lavorare sono tutte operazioni difficili che richiedono un grande impegno per mediare, risolvere conflitti, inventare soluzioni. Nessuno affronta queste difficoltà se non è proprio costretto, e se non dispone di tempi adeguati.

Riforma continua

Questo pone il problema delle riforme a ripetizione che non diventano mai vero cambiamento, e che sono una maggiori fonti di incertezza per le imprese. In Italia si fanno tante, tantissime riforme e poco, pochissimo cambiamento organizzativo. Per questa ragione, parlare di cambiamento organizzativo nelle amministrazioni pubbliche è un po’ imbarazzante. E’ da quando è stato istituito il Dipartimento della Funzione pubblica nel 1979 all’interno della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che nel nostro Paese vengono avviati programmi di riforma regolarmente lasciati incompiuti.

Fare riforme non significa necessariamente cambiare. Il virus della riforma continua senza cambiamento sembra essersi stabilmente inserito nel Dna della cultura politica e amministrativa. Sono quasi quarant’anni che le nostre pubbliche amministrazioni sono sottoposte all’accanimento riformatore1 attraverso una successione ininterrotta di riforme interrotte che non sono quasi mai arrivate alla fase della gestione. E’ come se un paziente entrasse e uscisse a ripetizione dalla sala operatoria cambiando ogni volta chirurgo, diagnosi e terapia. Nell’accanimento riformatore, come in quello terapeutico, c’è una sostanziale mancanza di rispetto per il soggetto su cui si interviene e soprattutto non c’è apprendimento, non c’è memoria, non c’è cambiamento. Scriveva vent’anni or sono Sabino Cassese tratteggiando questo modo italiano di fare riforme:

“Mentre in altri paesi le riforme fanno parte della gestione quotidiana della stato, in Italia esse hanno un’enfasi particolare, sono un capitolo a parte, costituiscono un fatto eccezionale… esse non sono preparate da diagnosi imparziali… qui le riforme sono precedute da dibattiti politici, accompagnate da articoli di giornale e interviste, con approssimazione, superficialità, senza fare un’accurata diagnosi del problema da affrontare…” Il tutto è accompagnato da una ritualità legislativa: “Se si fa una riforma si deve fare una legge”2

Oltre alle riforme senza cambiamento c’è l’altro tema ricorrente che giustamente sta a cuore alle imprese dell’alleggerimento del carico fiscale e contributivo, premessa e conseguenza di un taglio della spesa pubblica assorbita dalla macchina burocratica. Anche qui l’intervento di autorità esterne alla linea direzionale, i commissari alla spending review, si è dimostrato inutile e velleitario.

Come dimostrato dalla lunga serie di insuccessi, senza investire del problema una dirigenza legittimata nel suo ruolo e non commissariata da un’autorità esterna non si raggiungeranno risultati apprezzabili. Parafrasando Stafford Beer, un celebre cibernetico inglese che si è a lungo occupato anche di problemi aziendali e amministrativi, possiamo concludere che quando la razionalizzazione della spesa non è fatta da chi decide ma per chi decide si da al cambiamento il bacio della morte.

Le PMI alla prova di industria 4.0

Di Eleonora Di Maria, docente di Gestione d’impresa, coordinatrice laboratorio manifattura digitale, Università di Padova

Qual è il livello di adozione delle tecnologie industria 4.0 nelle PMI italiane? Quali percorsi di investimento e quali risultati raggiunti? Quali le sfide per le imprese manifatturiere alla prova del cambiamento in corso? A queste domande prova a rispondere il Laboratorio Manifattura Digitale (LMD) avviato dal 2016 presso il Dipartimento di Scienze Economiche dell’Università di Padova. I risultati mostrano un quadro non scontato, in cui ad un piccolo gruppo di imprese dinamiche si contrappongono ancora troppe imprese lontane da un comprensione vera delle opportunità offerte dal 4.0.

Tra maggio e dicembre del 2017 abbiamo intervistato 1.020 imprese specializzate nei settori del made in Italy (mobili, tessile, abbigliamento, orafo, occhialeria, articoli sportivi, automobili, apparecchiature elettriche e di illuminazione, gomma-plastica) e localizzate nelle regioni del Nord Italia (Veneto, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Emilia Romagna, Piemonte e Lombardia) con un fatturato di almeno 1 Ml di Euro (o inferiore in settori ad elevata presenza distrettuale), partendo da un universo di 7.293 imprese. Le imprese che adottano almeno una delle tecnologie industria 4.0 – robotica, manifattura additiva, laser cutting, big data/cloud, IoT, scanner 3D o realtà aumentata – sono il 18,6%.

Rispetto ai primi dati raccolti dal LMD (rapporto ottobre 2016) si conferma come solo un’impresa su cinque circa abbia investito in questa direzione. Da sottolineare però come questo percorso non riguardi affatto solo le grandi imprese: oltre il 40% delle imprese sono di piccola dimensione, con un altro 20% circa di micro dimensioni. Emerge inoltre una forte varietà settoriale, a segno della selezione delle tecnologie più in linea con le specificità di prodotto e processo delle imprese adottanti rispetto al settore di appartenenza. Non si tratta di investimenti scatenanti da incentivi, ma riflettono un orientamento innovativo delle imprese che hanno investito in media in anni precedenti al Piano industria 4.0 (dal 2008 al 2014). Vi è inoltre una relazione positiva tra investimenti nelle soluzioni ICT (web, ERP, ecc.) e tecnologie industria 4.0, a sottolineare quanto il percorso di digitalizzazione è importante per favorire successivi investimenti (dal punto di vista delle competenze e dell’apprendimento dell’impresa).

Gli adottanti inoltre scelgono tecnologie differenti rispetto alle proprie attività della catena del valore (robotica per la produzione, manifattura attività per lo sviluppo prodotto, big data/cloud per gestione della produzione, marketing e post vendita). Non si tratta di acquistare solo tecnologie 4.0. Le imprese sviluppano progetti 4.0 perché nel 72,5% degli adottanti è stato necessario personalizzare l’hardware, il software o l’integrazione con i gestionali esistenti. I principali partner in tale processo sono soprattutto i fornitori di impianti e macchinari (oltre il 64%) ovvero di tecnologie 4.0 (39%). Nella personalizzazione delle diverse tecnologie vi è un ruolo diverso dei partner (in cui entra in gioco anche l’università o i centri di ricerca). Emerge quindi la rilevanza del processo di accompagnamento per ottenere un pieno sfruttamento del 4.0.

Si conferma come i principali motivi dell’investimento sono legati al mercato, con oltre il 75% delle imprese che dichiara una rilevanza alta o molto alta per la motivazione legata al miglioramento del servizio al cliente (il 65% per esigenze di efficienza interna). I risultati conseguiti mostrano un’effettiva capacità di beneficiare degli investimenti fatti, con un 60% di imprese che ha ottenuto (rilevanza alta o molto alta) un aumento dell’efficienza o un miglioramento della produttiva (54%) o miglioramento del servizio al cliente (53%). Anche l’impatto sul fronte occupazione è positivo, con oltre il 61% di imprese che ha mantenuto stabile l’occupazione a seguito degli investimenti in 4.0, mentre il 34,2% l’ha aumentata. Lo stesso lavoro in fabbrica è stato impattato dall’investimento tecnologico, con impatti soprattutto sul fronte della creazione di nuova conoscenza per migliorare prodotti o processi (oltre il 47%) ed un aumento sul fronte della formazione per lo sviluppo delle competenze dei lavoratori (35%). Infine, le imprese adottanti hanno ottenuto benefici di performance – sul fronte dell’EBIDTA/vendite o della crescita del fatturato – superiori alle imprese non adottanti. Le performance non migliorano all’aumentare del numero delle tecnologie adottate, ma le differenze tra adottanti e non adottanti emergono solo con una o due tecnologie. Non paga tanto la quantità, quanto la qualità dell’investimento. Le difficoltà riscontrate riguardano sia la mancanza di capitale umano (reperibilità di figure professionali adeguate così come di competenze interne), di banda larga e di risorse finanziarie ed organizzative.

Quali sono le ragioni invece dei non adottanti? Nella stragrande maggioranza viene confermato come i motivi siano soprattutto di natura strategico-culturale piuttosto che economico-finanziaria. Infatti circa il 66% delle imprese dichiara che le tecnologie industria 4.0 non sono rilevanti per il loro business. A seguire l’essere un’impresa piccola o impresa artigiana. Solo il 10% circa dichiara che sono in fase di valutazione. In sostanza non vengono colte le reali potenzialità che queste tecnologie possono offrire per ripensare il proprio rapporto con il mercato e rafforzare la propria competitività, anche a livello internazionale.

In sintesi vi sono due gruppi distinti di imprese che mostrano un approccio alle tecnologie molto diverso, in cui le prime sono proattive e hanno colto con anticipo le potenzialità della quarta rivoluzione industriale. I risultati positivi conseguiti dagli adottanti dovrebbero costituire uno stimolo per chi non ha ancora intrapreso questa strada, a patto che si accresca la loro consapevolezza. Vedremo se gli sforzi che da più fronti stanno andando nella direzione di una trasformazione in chiave digitale della manifattura sapranno traghettare le PMI italiane verso una piena adozione, valorizzando ed aggiornando il sistema di competenze e di saper fare italiano.

Né sfruttati né bamboccioni

Di Lorenzo Rocco, docente di politica economica, Università di Padova

Come mai, si chiede Cancelllato, in un’epoca potenzialmente così favorevole ai giovani, in cui il veloce progresso tecnologico riduce il valore dell’esperienza accumulata nel tempo, le prospettive dei giovani italiani sono invece così magre? Il saggio cerca di rispondere a questa domanda e lo fa con una ampiezza di analisi e una ricchezza di dati davvero notevoli.

Si analizzano vari aspetti, quali la demografia sfavorevole, il sistema dell’istruzione superiore e universitaria che non produce competenze immediatamente spendibili, ma anche la poca domanda di competenze espressa dal sistema delle imprese. Si discutono gli squilibri del welfare, tutto orientato alle pensioni e poco alle famiglie e incapace di fornire protezione durante i sempre più frequenti periodi di transizione da un’occupazione a un’altra. Si evidenzia che gli squilibri di finanza pubblica alla fine ricadranno sui giovani, data la difficoltà nel ridurre i privilegi difesi della retorica dei diritti acquisiti. Si accenna al fatto che le ampie coorti di anziani hanno un peso politico sufficiente a bloccare riforme che mirano a un riequilibrio dei trasferimenti a favore dei giovani.

Che fare allora? Le politiche suggerite nel saggio includono la necessità di un maggiore investimento in istruzione e in formazione continua, che coinvolga buon parte della forza lavoro; la necessità di un forte intervento dello stato come venture capitalist, per supportare la nascita di molte e nuove start-up; e un ripensamento del welfare in un’ottica di flex-security.

Queste sono certamente politiche necessarie nel nostro paese, condivisibili e urgenti e in parte anche già attuate. Mi permetto di suggerirne una ulteriore, o piuttosto un approccio diverso ai problemi.

In un mondo così complesso, imprevedibile e veloce nel cambiamento, è difficile riuscire a individuare, in tempo, una singola strategia di successo valida per la maggior parte delle persone. Tra l’altro, non siamo nemmeno certi che questa strategia esista e non sappiamo per quanto tempo sarà valida. E’ possibile che esistano molte strategie diverse, adatte a piccoli gruppi di soggetti diversi e non necessariamente alla maggioranza delle persone. Al tempo stesso, quelle che a priori potevano apparire come alternative promettenti, alla fine potrebbero rivelarsi vicoli ciechi. Se questo è il contesto, forse l’approccio più promettente non è quello che si basa solo sulla programmazione, magari dal centro, per quanto comunque necessaria, ma quello che procede anche per prova-ed-errore. E’ un approccio in cui si sperimenta, si testa e si esplorano molte vie, accettando il rischio di fallire. Non si mettono tutte le uova in un paniere, magari quello della politica industriale, ma si diversifica il portafoglio degli interventi, includendo e supportando gli interventi che originano dal basso. I fallimenti saranno molti, ma i fallimenti mostrano quali strade sono vicoli ciechi.

Non pare plausibile che un approccio centralistico e top-down, dove lo stato indica la direzione per tutti, sia l’approccio corretto. Al contrario, un approccio decentrato, che sperimenti contemporaneamente molte soluzioni diverse coinvolgendo individui e soggetti, privati e pubblici, potrebbe essere preferibile. Tale approccio decentrato è però possibile solo a patto di aumentare la libertà d’azione degli individui, riducendo regole, autorizzazioni e controlli preventivi, a favore di valutazioni e verifiche ex-post. Si deve dare fiducia alle persone e non presumere che agiscano naturalmente in violazione alla legge. Serve rafforzare la propensione naturale dei giovani a rischiare, prevedendo meccanismi di assicurazione. Serve un sistema potente di venture capital, che attinga al grande serbatoio di risparmio del paese, magari partecipato dall’INPS e finanziato dai contributi pensionistici, in modo da rendere generazioni diverse interessate al successo delle nuove intraprese. Serve che il settore pubblico diventi esso stesso uno sperimentatore, che istituisca zone speciali, geografiche o tematiche, in cui testare nuove regole, nuove istituzioni, una nuova fiscalità (in fondo, la sanità regionalizzata va già in questa direzione). Serve aumentare la varietà dell’istruzione consentendo alle scuole di perseguire progetti e modalità educative differenziati e serve spingere le imprese a offrire loro stesse quel tipo di istruzione di cui lamentano la mancanza.

Così facendo si potrà esplorare velocemente un mondo ampio e sconosciuto cogliendo tutte le opportunità che offre.

La digitalizzazione guidata dai Data

Di Enrico Aramini, fondatore e amministratore delegato HTC High Tech Consultant

Sto incontrando molte aziende che sono alla ricerca di digitalizzare la loro produzione. Per lo più si stanno concentrando su temi specifici. Dagli Iper ammortamenti di investimenti in macchinari alla raccolta dei dati di produzione, dall’aggiunta di funzionalità a sistemi MES esistenti all’evoluzione del sistema Lean Production basato sulla carta all’integrare il processo di Controllo della Qualità in produzione, dall’accorciare la catena distributiva o di fornitura al monitoraggio della manutenzione.

In produzione alcune dispongono di applicazioni dal sapore vintage altri hanno collegato il gestionale direttamente con le linee produttive. Molte aziende stanno lavorando sulle varie aree con risultati a macchia di leopardo. Ma eccellere in ciascuna area è sufficiente?

L’esperienza mi suggerisce di essere scettico. Basta guardare le aziende che hanno raggiunto l’obiettivo di profitto. Mostrano sempre un equilibrio tra tutti i reparti aziendali, un obiettivo condiviso. E’ questo che rende l’azienda profittevole e il fattore comune non è un leader geniale. Quello da una spinta inziale forte ma poi cambiano marcia. E’ l’organizzazione fatta di processi e persone che sono guidati e regolati dalla lettura rigorosa dei dati. Raccoglierli, derivarne una visione di insieme reale e guidare il cambiamento organizzativo sono le pietre miliari del raggiungimento del profitto.

Limitandoci alla produzione per un momento, chiediamoci: oggi possiamo raccogliere molti dati, ma lo facciamo? Per lo scopo di migliorare o di iperammortare? I dati raccolti vengono analizzati regolarmente? Quand’è l’ultima volta che abbiamo cambiato un processo sulla base di dati raccolti direttamente dal campo? Chi ci aiuta nel processo di digitalizzazione della produzione? Se affidiamo la raccolta dei dati o il gestionale di fabbrica ad una società di automazione o specializzata in schedulatori a capacità finita è chiaro che l’approccio è parziale e così sarà la nostra capacità di digitalizzare.

Festival Città Impresa: venerdì al via a Vicenza con Bono, Castellucci, Cattaneo, Cottarelli e Guerra

Ripresa dei distretti, la locomotiva composta da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna che sta trainando la ripresa italiana, i conti pubblici, il lavoro e le nuove imprese “champions”. Saranno questi alcuni dei temi dell’undicesimo Festival Città Impresa, edizione primaverile del Festival dei Territori Industriali diretto da Dario Di Vico, che tornerà a Vicenza dal 13 al 15 aprile. 

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Finanziare le imprese? Perché no? Purché siano innovative!

Di Ercole Bonini, presidente Studio Bonini

Un’azienda per innovare deve affrontare degli investimenti. Con il processo di innovazione si avvia l’iter per modificare e migliorare le prestazioni dei propri prodotti, o crearne di nuovi, ma non solo, si devono prevedere investimenti per la protezione della proprietà industriale e per le attività commerciali per promuovere l’innovazione. Read more

Produttività, istruzione, e concorrenza: così si vincono le sfide del futuro

Corriere di Bergamo.

Python? E che cos’è? Chi ha capelli grigi in testa (o non ne ha affatto) lancia sguardi interrogativi, mentre in apertura del Festival Città Impresa, l’economista, bergamasco nel mondo, Francesco Giavazzi, indica come fondamentale precetto del futuro la conoscenza di questo linguaggio, utilizzato in moltissime tipologie di applicazioni. Read more

Al via a Bergamo il festival dei territori industriali, apertura con il Presidente Tajani

Si aprirà con una intervista a Francesco Giavazzi la manifestazione che guarda al futuro dei territori e dell’impresa. Confermata la presenza del Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni sabato 11 alle ore 10 al Kilometro Rosso. Grande attesa per l’intervento del presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani venerdì 10 alle ore 18.15 in Camera di Commercio.

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Chiude la decima edizione del Festival Città Impresa: un successo per Vicenza, sold out per tutti gli eventi in programma

Si è chiusa questo pomeriggio, nella città di Palladio, la decima edizione del Festival Città Impresa che da venerdì 31 marzo ha animato il centro di Vicenza, trasformandola in una piccola capitale italiana del dibattito economico-politico, come testimoniato dai riscontri che ci sono stati in questi giorni sulla stampa nazionale e locale. Read more

Festival Città Impresa, In città il gotha di economia e politica

Il Giornale di Vicenza.

Tre giorni di eventi, da stamani al 2 aprile, con i protagonisti della politica e dell’economia nazionale e internazionale. Solo oggi, per dire, l’elenco degli ospiti prevede, tra gli altri, il presidente del parlamento europeo Antonio Tajani. Domani invece, per parlare di Tav, sarà in città il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio. Si alza il sipario su “Festival Città Impresa”, la manifestazione promossa dall’amministrazione comunale e da VeneziePost che compie dieci anni e punta a mettere a fuoco i temi centrali dello sviluppo di imprese e territori. I numeri dell’evento dicono: 130 relatori previsti e 30 eventi a tutto campo.

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Città Impresa compie dieci anni e guarda a ovest. “Nuove idee per un nuovo sviluppo”

Il Giornale di Vicenza.

Dieci anni a raccontare la “metropoli Nordest”, a registrare anno dopo anno le tendenze di un territorio fondamentale per la crescita del paese, ad analizzare le sue caratteristiche, le sue trasformazioni, le sue gioie e i suoi dolori, i successi ma anche i limiti, in un periodo storico tra i più travagliati degli ultimi cinquant’anni. Read more