«La Cina? È opportunità Non le siamo subalterni»

Il Giornale di Vicenza

Un secondo “piano Marshall” ma più ad est, molto più ad est. A paragonare la “Nuova via della seta” di iniziativa cinese al programma di ricostruzione dell’Europa finanziato settant’anni fa dagli Usa è il direttore della Fondazione Italia-Cina e già ambasciatore in Giappone e Brasile Vincenzo Petrone.

Un accostamento con cui l’ex responsabile dell’unità di crisi della Farnesina, ieri mattina a palazzo Chiericati per il convegno del Festival Città Impresa “Le relazioni con la Cina e i riflessi per il Nord Est”, ha voluto sottolineare le grandi opportunità che la partnership economica tra la terra del Dragone e il vecchio continente può offrire. «Siamo in grado di estrarre un’incredibile quantità di valore e abbiamo la possibilità di ribaltare i rapporti di forza economica», assicura Petrone, tra i relatori assieme a Gregorio De Felice e Zeno D’Agostino. Il riferimento, nel dialogo con il direttore del “Mattino di Padova” Paolo Possamai, è agli alleati europei che, «inutile girarci intorno, prendono le decisioni: Francia e Germania».
Pur volendo sorvolare sul direttorio parigino tra Macron, Merkel e Juncker durante la visita francese del presidente cinese Xi Jinping (valsa alla Francia accordi per 40 miliardi di euro contro i 7 miliardi italiani), sono i numeri dell’attuale export verso la Grande Muraglia a certificare l’italico ritardo sulla corsa all’Oriente. In una Cina che genera il 18,7% del Pil mondiale, come evidenzia Gregorio De Felice, chief economist di Intesa Sanpaolo, l’Italia esporta oggi 13 miliardi di euro contro i 95 miliardi della Germania. Troppo pochi anche i 2,1 miliardi delle forniture del Triveneto trainato dai distretti, quelli sì in crescita, dove spiccano la meccanica strumentale di Vicenza e la concia di Arzignano. Di spazio per un vero mutuo sviluppo tra l’Italia e l’ex Celeste Impero ce n’è in abbondanza e in quello intende inserirsi il protocollo “Belt and road” di cui si è cominciato a parlare nel 2013, quando, come ricorda De Felice, «la Cina ha deciso di cambiare il suo modello di capitalismo socialista».

Un modello statale che però almeno in parte funziona secondo Zeno D’Agostino, presidente del porto di Trieste – il primo porto italiano per traffico di merci – e vicepresidente dell’autorità portuale europea Espo, anche lui convinto sostenitore delle potenzialità dei nuovi contratti italo-cinesi: «Oggi qualcuno si accorge di Trieste – osserva D’Agostino – ma da anni esiste un tavolo sulle infrastrutture Europa-Cina grazie al quale abbiamo chiuso anche il progetto Trihub». Progetto che prevede investimenti ferroviari in Friuli ma anche la realizzazione di piattaforme logistiche per l’espansione dell’export italiano in Cina. Minimizzando il rischio di una deriva imperialista, D’Agostino chiarisce: «Il problema siamo noi che ci riteniamo sempre subalterni a qualcuno, non la Cina la quale, se chiediamo reciprocità, ce la dà». Percorrendo la “Nuova via della seta” l’Italia può dunque «fregare il traffico ai signori del Nord Europa», come già D’Agostino sta facendo a Trieste, conquistando fasce di mercato – vedi il vino, esportato ad Oriente per il 50% dalla Francia – oggi ancora precluse.


Tremonti: «L’Ue oggi è viva ma non si può darla alle banche»

Il Giornale di Vicenza

“The time is out of joint, il tempo è uscito dai cardini”. Cita l’Amleto di Shakespeare ma anche il “Bussola, polvere da sparo e arte della stampa” di Bacone («le stesse invenzioni rivendicate per la Cina dal presidente Jinping»), Tocqueville e Pasolini. Ha parole di elogio e ammirazione per i padri fondatori dell’Europa ma riserva una sentenza inappellabile per chi vi è a capo oggi: «una banda di pirla». È un Giulio Tremonti a tutto tondo quello che ieri all’Olimpico ha offerto la sua visione del mondo, passato e presente, «per il futuro è ancora presto» al direttore del Festival Città Impresa Dario Di Vico. Un’intervista “faticosa”, ha scherzosamente ammesso il giornalista del Corriere della Sera al termine dell’incontro “Territori e globalismo, il nuovo conflitto città-campagna”, durante il quale l’ex ministro dell’economia e delle finanze, oggi presidente dell’Aspen Institute Italia, ha ricostruito le tappe europee, marcandone gli errori, i limiti e quelli che lui definisce «crimini politici».

Di quest’ultima categoria fa parte il “caso Grecia”: «Per favorire le banche tedesche e francesi esposte per 200 miliardi è stata distrutta la società greca». Ma è all’Italia che l’Europa, che produce oggi «10 chilometri lineari di regole», ha riservato una lunga serie di prevaricazioni culminate nel 2011, sotto il fuoco incrociato dello spread, in quel «dolce colpo di Stato», che mise fine all’ultimo esecutivo Berlusconi. «Il primo provvedimento firmato da Mario Monti fu il sostegno al fondo per salvare le banche nella crisi greca». Ciononostante per Tremonti «l’Europa non è finita, ma non può essere fatta dai banchieri; meglio puntare, ad esempio, sulla difesa, visto che i cittadini chiedono sicurezza». La ricetta del professor Tremonti – che strizza l’occhio a quella trumpista specie sui dazi – per sopravvivere alla “seconda globalizzazione” è semplice: «Deregulation, stop alla follia europea di dare soldi che vengono poi redistribuiti ad altri e magari emissione di eurobond, visto che l’euro di carta non l’hanno voluto».

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