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Robiglio: «Pmi, un rimbalzo timido La risalita è ancora lunga»

Il Giornale di Vicenza / 11 settembre 2020

Non parlategli di ripresa. «No. Non fosse altro che, per scaramanzia, non mi lascio andare ad entusiasmi in una situazione peraltro di incertezza sanitaria. Parlerei di un timido rimbalzo.

La realtà è che siamo rotolati giù da una montagna e la strada della risalita è ancora lunga. E la politica non è del tutto consapevole di come supportare la ripresa. Quindi, come al solito, le imprese dovranno fare in buona parte da sole». Carlo Robiglio tiene il polso della Piccola Industria di Confindustria che esprime qualcosa come oltre il 90% degli associati, spina dorsale del Paese.

Oggi alle 15 al Palladio Museum è ospite del Festival Città Impresa sul tema della sfida della digitalizzazione, una delle leve per la ripresa. Dal suo osservatorio qual è la situazione presidente Robiglio? Il covid è stata una mazzata per la piccola e media impresa che si è abbattuto in un quadro già di non totale robustezza. L’Italia era l’unica grande potenza in Europa che doveva ancora del tutto riprendersi dalla crisi del 2008 attraversando alti e bassi e senza mai arrivare ad una ripresa forte e continuativa anche a causa, va detto, di un quadro politico di incertezza. Poi è arrivata la pandemia. Le ultime analisi macroeconomiche dicono però che il peggio è ormai alle spalle. Cosa ne pensa? La risalita è ancora lunga. Dopo il tonfo di diversi punti percentuali il lieve rimbalzo dell’ultimo trimestre non mi porta certo a fare proclami entusiastici perché, rispetto allo scorso febbraio prima del lockdown, la sofferenza è ancora a doppia cifra. Mi sento di dire, quello sì, che abbiamo arginato la caduta e le nostre piccole imprese hanno reagito al totale disastro e dimostrato una capacità di resilienza e adattamento a cambiare pelle. Quali sono oggi i fabbisogni delle imprese? La liquidità innanzitutto messa a dura prova dai mancati pagamenti e dal blocco dei consumi.

L’imprenditore sta vivendo sulla sua pelle un mondo che sta cambiando e in cui è necessario investire sulle managerialità, le competenze, la trasformazione digitale, la direzione del new green deal e quindi la sostenibilità e la centralità della persona, la formazione e i sistemi di welfare Dalla moratoria sui finanziamenti alle garanzie statali, ritiene che le azioni del governo non siano state sufficienti? C’è una questione di fondo: troppo assistenzialismo e troppa poca attenzione allo sviluppo. Il governo dovrebbe varare misure con facile ricaduta sulle imprese che hanno intenzione di crescere in percorsi virtuosi di cambiamento. Non è questione, tanto per capirci, di offrire la possibilità di acquistare un computer, ma di supportare lo sviluppo di un processo. E il governo non lo sta facendo. Cosa si aspetta dalle misure del Recovery Fund? Prima ancora di parlare di Recovery Fund, su cui come Confindustria stiamo lavorando e sulle cui linee di principio insisteremo anche nella nostra assemblea del 29 settembre, serve semplificare e sburocratizzare il “moloch” della pubblica amministrazione. Uno dei grandi problemi di oggi ad esempio è la mancanza di decreti attuativi: il governo racconta cose mirabolanti di cui però poi, proprio per mancanza di semplificazione, non si vede la ricaduta positiva. I decreti attuativi per il superbonus 110% nel decreto rilancio alla fine però sono arrivati. Questo non è positivo? È la politica dei bonus ad essere ormai un modo poco efficace di procedere. Serve tanto altro. Ad esempio, nel campo formativo, il sostegno alla formazione professionale per generare le competenze che servono davvero alle nostre imprese. Dal nostro Centro studi emerge che le imprese italiane nei prossimi due mesi cercheranno 200 mila figure nell’Ict e non le troveranno.

Ci sono gap epocali su temi di buon senso che non si risolvono con il reddito di cittadinanza ma investendo sulla formazione dei giovani in modo che possano lavorare nelle imprese che li cercano. Avete criticato non poco il blocco dei licenziamenti, perché? Abbiamo sostenuto che fosse di buon senso all’inizio della pandemia, ma non si può pensare di sostenere il Paese in questo modo perché le imprese restano ingessate mentre devono pensare a nuovi percorsi di sviluppo che prevedono nuovi investimenti. Crisi e recessioni sono sempre più frequenti e spingono verso una crescita delle dimensioni aziendali. È questo il futuro della Piccola industria? La crescita ha tante sfaccettature.

Crescita è creare le precondizioni affinché l’impresa sia competitiva sui mercati internazionali. Crescita significa anche aggregazioni, reti d’impresa e soprattutto filiera, concetto verso cui noi spingiamo: decine, centinaia di piccole imprese che creano ecosistemi e lavorano per grandi imprese esportatrici. Arriva a Vicenza, provincia industrializzata ed esportatrice. Qual è stato l’impatto del covid nelle diverse aree del Paese? Il covid ha polarizzato le differenze. Vicenza è un’area molto forte, un’eccellenza nazionale ma direi quasi mondiale, che ha la fortuna di basarsi su un tessuto imprenditoriale capace di cambiare pelle in modo veloce e senza aspettare le misure del governo. In altri territori che già soffrivano tanti problemi, gli imprenditori sono eroi. Che autunno si aspetta? Sono certo della reazione degli imprenditori: saranno ancora loro a tenere in piedi l’Italia. Sono molto preoccupato per il sistema Paese che non vedo pronto a supportare le imprese.

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