Tecnologie digitali, «l’Italia acceleri»

Giornale di Vicenza / di Laura Pilastro

Le tecnologie digitali, croce e delizia dell’economia globale. Perché se «il loro potenziale è enorme e apre una serie di sfide in termini di competitività, non si può nascondere come queste contribuiscano anche all’incertezza su scala globale».

È uno scenario in rapida trasformazione quello descritto da Michael Spence, premio Nobel per l’economia nel 2001, che ieri ha aperto il Festival Città Impresa.
La lectio magistralis dell’economista americano ha acceso i riflettori sui cambiamenti dovuti all’ascesa delle economie emergenti e sulla trasformazione digitale dei modelli di business. Tutti spunti sui quali negli spazi della Fondazione Cuoa di Altavilla, l’esperto ha dialogato con Gregorio De Felice, chief economist di Intesa Sanpaolo e con il caporedattore economia del Corriere della Sera, Nicola Saldutti.«L’economia globale sta vivendo un momento difficile, di grande rallentamento a causa di un forte senso di incertezza. Questo è dovuto a più fattori, prima di tutto la guerra commerciale tra Usa e Cina. A questo si aggiunge la situazione politica, con l’ascesa dei nazionalismi e dei populismi e, infine, l’impatto delle tecnologie digitali, un fattore, questo, che trasformerà tutto, anche la natura del lavoro, con una riconfigurazione dei processi produttivi».

Ciò che manca in Europa, considera il premio Nobel, «è la presenza di macro-piattaforme digitali che ora sono esclusivamente in Cina e Usa. In Italia, in particolare, c’è un po’ di lentezza. Ad esempio, gli italiani non amano molto comprare on-line, al contrario della Cina dove il pagamento con il cellulare è un sistema così avanzato che ci fa sembrare degli uomini preistorici al confronto. È un’economia che ha fatto il balzo dal portafoglio al cellulare, senza passare per le carte di credito. Basti pensare che ogni secondo, in Cina, si effettuano 365 mila operazioni. Non c’è nessuna altra realtà che ha a che fare con questo volume di dati, gestito dall’economia digitale. Anche l’Italia dovrebbe accelerare questo processo perché i benefici sarebbero enormi. Le tecnologie digitali produrranno rilocalizzazioni e non servirà più andare in India, in Cina o in Bangladesh per avere manodopera a basso costo, si fonderanno nuovi centri di innovazione direttamente dove c’è il mercato. Sarà un cambiamento epocale». «Il digitale – aggiunge De Felice – è in grado di produrre un salto di efficienza nell’industria di filiera. Soprattutto per la piccola impresa è un’opportunità enorme. Naturalmente poi ci vogliono persone che lo facciano funzionare. Ecco perché ai giovani dico di non sacrificare la loro voglia di suonare il violino o dipingere, ma queste devono essere scelte consapevoli. Un po’ di orientamento rispetto a quello che chiede il mercato ci vuole». E l’adattamento a un mondo sempre più innovativo «dipenderà da noi», conclude Spence. «Possiamo utilizzare il progresso al nostro servizio in vari modi. Ma credo sia utile semplificare l’accesso alle tecnologie semplificando la tecnologia stessa in modo tale che alle persone sia più facile adattarsi a quest’ultima».


Monti: «Lotta contro i cartelli per tutelare l’Europa»

Il Giornale di Vicenza / di Roberto Luciani

L’Antitrust può portare l’Europa lontano. Soprattutto ora che il gigante cinese sembra volerle camminare a fianco in tema di concorrenza, di qualche diritto umano e di lotta al cambiamento climatico «vedremo con quanta sincerità». Più di una lezione “Da Microsoft a Google, l’Antitrust e i colossi del web”, stimolato dalle domande del giornalista Danilo Taino e dall’attualità stringente, vedi la Brexit inglese, il professor Mario Monti è uscito dai confini del tema, nell’ambito del Festival Città Impresa, per contestualizzare vicende portatrici di rischi enormi per la stabilità del sistema europeo. Dunque, dall’Europa non si scappa. Soprattutto se le due uniche, vere strutture federali, la Banca centrale e la Commissione per la concorrenza continueranno a svolgere il proprio compito senza destabilizzazioni di tipo nazionale.

Come ad esempio il mal di pancia franco-tedesco che, proprio in riferimento all’assalto delle imprese cinesi chiede che l’ultima parola in tema di concorrenza non sia quella del Commissario ma delle capitali europee. Va da sè che i francesi dovranno riporre ancora una volta la loro voglia di grandeur nei cassetti dell’Eliseo, non fosse altro che per cambiare il regolamento ci vuole l’unanimità di tutti i 27 Paesi membri, ma la questione, in questo caso portata avanti per dare vita a campioni nazionali che possano reggere la sfida delle grandi multinazionali mondiali, in definitiva pone ancora una volta come centrale il ruolo che il continente dovrebbe avere in questa ulteriore fase di evoluzione geopolitica e che talora rimette pericolosamente in discussione dal suo interno. E non solo, come si vede, da parte delle forze sovraniste. Non è una questione di protezionismo, al contrario il principio da perseguire è proprio quello, attraverso la libera concorrenza e dunque lotta dura contro cartelli, fusioni che danno poi origini a famiglie ibride («Lo dico qua a Vicenza, anche se non è Verona») abusi della propria posizione dominante e pure ad aiuti impropri di Stato, di non indebolire l’autorità politica del Vecchio Continente. Sulle rive dell’Atlantico si sono fermati in tanti, vedi recentemente anche Apple, e qualcuno come General Electric e Honeywell è stato fermato prima, a dimostrazione che l’Europa, quando vuole, c’è e fa pure sentire i suoi colpi.

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