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I cambiamenti nella pubblica amministrazione, una storia senza fine

Di Giovanni Costa, amministratore Intesa Sanpaolo, Università di Padova

I rapporti tra Pubbliche amministrazioni e imprese non sono ma stati tranquilli. E continuano a essere percepiti come negativi anche in presenza di innegabili miglioramenti. Che evidentemente non sono considerati sufficienti.

Quello che impedisce un allineamento tra le procedure amministrative e i bisogni delle imprese è anzitutto il gap tecnologico e i diversi criteri di valutazione della performance. E’ da tempo partita una trasformazione digitale che investe le relazioni sociali, economiche e politiche, private e pubbliche, che annulla le tradizionali dimensioni spazio-temporali e dà vita a una nuova geometria con la quale si sta disegnando un futuro capace di suscitare angosce occupazionali ed entusiasmi progettuali. Un futuro fatto di intelligenza artificiale, macchine che apprendono, robot che cooperano con l’uomo potenziandone le capacità. E noi siamo ancora alle prese con i tempi della giustizia, la durata del procedimento amministrativo, l’opacità delle procedure e i conflitti di competenze.

E’ possibile che l’ondata tecnologica rimuova i problemi alla radice rendendo superflua la ricerca di soluzioni che nascerebbero già morte. Ma non sottovalutiamo l’inerzia istituzionale e la sua capacità di arrestare, ritardare, distorcere l’impatto trasformatore. Il processo va gestito e non subìto.

Alla ricerca del tempo perso

Quello del tempo è il punto di maggiore crucialità: i tempi della giustizia, soprattutto quella civile; il tempo dei procedimenti, i tempi di lavoro e così via. La Legge 241/1990 e la successiva n.15/2005 hanno notevolmente innovato in tema di tempi e di responsabilità del procedimento anche se non si sono dimostrate risolutive. Spesso, alla ricerca di giustificazioni, i responsabili imputano la lunghezza dei tempi alle carenze di organico. Raramente è così. Il più delle volte dovrebbero essere rivisti radicalmente servizi-prodotti-processi.

E’ incredibile quali economie si possano ottenere ripensando l’organizzazione e lo stesso prodotto-servizio in funzione del tempo. Si pensi, per fare un esempio, al cambio delle gomme in un’automobile. Per cambiare una sola ruota, un automobilista impiega alcune decine di minuti, un meccanico qualche minuto e un team di Formula 1 circa due secondi per tutte quattro le ruote e il pieno di benzina. Non è solo una questione di risorse impiegate: circa 20 uomini. Il risultato deriva soprattutto del fatto che l’auto, la ruota, gli attrezzi sono stati progettati in funzione della velocità del pit stop. Non facciamoci deviare dall’esempio, magari pensando all’incidente di Raikonnen all’ultimo Gran Premio al Bahrain.

Mentre molti Comuni stanno cercando di accelerare il rilascio della carta d’identità elettronica, l’introduzione del Sistema pubblico di identità digitale (Spid) che si ottiene comodamente da casa in pochi minuti potrebbe assolvere molte funzioni del documento di identità tradizionale, cartaceo o elettronico che sia. In attesa che la biometria con il riconoscimento facciale e l’uso di altri parametri corporei superi in molti casi la necessità di strumenti di mediazione certificatoria tra l’individuo e la sua identità.

Invece di razionalizzare il processo di produzione si cambia radicalmente il “prodotto”. Amazon evade un ordine in meno di 24 ore perché ha ridisegnato l’interfaccia azienda-clienti-fornitori, i magazzini, la logistica in funzione del fatto che il tempo di consegna entra nel valore del prodotto. Alcune banche oggi consentono il bonifico a esecuzione istantanea in luogo degli svariati giorni prima necessari perché hanno (finalmente) metabolizzato la rivoluzione della moneta digitale e ridisegnato il servizio incorporando il valore del tempo.

Di questo ha consapevolezza il management pubblico che quando è messo nelle condizioni di decidere ottiene risultati notevoli (si pensi a certi servizi dell’Inps o all’Unico precompilato dell’Agenzia delle Entrate). Il fatto è che spesso è il legislatore che entra più o meno consapevolmente in dettagli organizzativi, in modalità di controllo, in ricerca di garanzie che non rispondono a una logica di efficienza e di efficacia. E’ difficile eseguire in maniera efficace ed efficiente in un processo tortuoso e irrazionale nel quale la variabile tempo non entra mai come un valore individuale e collettivo, privato e pubblico da perseguire. E’ necessario che il legislatore si limiti a definire obiettivi e pochi e semplici criteri di esecuzione e lasci alla struttura direzionale di occuparsi dell’organizzazione.

Ruoli politici e ruoli direzionali

Questo pone il problema dei ruoli direzionali nelle pubbliche amministrazioni che non è mai stato affrontato con un approccio corretto. I vari tentativi di privatizzare il rapporto di pubblico impiego raramente hanno superato la soglia della enunciazione di principio e pienamente metabolizzato l’idea che un conto è l’esercizio di poteri sovrani e un conto è l’erogazione di servizi alle persone e alle imprese.

Usando un approccio organizzativo, potrebbe essere utile riprendere sia la separazione tra direzione politica e direzione amministrativa sancita dal D.Lgs 29/1993 sia l’ipotesi federalista. In astratto, il Federalismo è un modello che si attaglia non solo alle questioni fiscali o ai rapporti tra Stato e Regioni ma anche alle problematiche organizzative generali perché afferma l’esigenza di affrontare e risolvere i problemi là dove nascono, mobilitando e responsabilizzando le risorse e gli attori a diretto contatto con i problemi. Afferma anche l’esigenza di mantenere a livello centrale la costruzione del senso complessivo dell’azione pubblica. Il potere centrale è l’altra faccia dell’autonomia e deve essere abbastanza forte e concentrato da consentire di affrontare la complessità dei problemi, ma non così concentrato da inibire l’iniziativa, la responsabilità e le competenze di tutti gli attori.

La concentrazione di potere riguarda anche i ruoli direzionali, che invece vengono sistematicamente depotenziati come nel caso della creazione di autorità esterne alla linea gerarchica di valutazione del personale che non mi pare vada nel senso di un recupero e una valorizzazione del potere e del ruolo direzionale. Ancora una volta il cambiamento e la ricerca di prestazioni migliori, vengono interpretate come un processo giudiziario (trial) presidiato da autorità terze e non come un processo organizzativo (process) presidiato dal management. E anche la recente riforma Madia sembra preoccuparsi più di come poter licenziare i furbetti assentisti (finalità peraltro lodevole) che di come far lavorare su un diverso concetto di servizio il personale presente. E’ molto improbabile che questo processo organizzativo venga messo in moto da meccanismi di valutazione esterni al ruolo direzionale che viene invece così delegittimato e depotenziato.

Operare ristrutturazioni, spostare persone con le loro famiglie, aumentare la produttività, cambiare il modo di lavorare sono tutte operazioni difficili che richiedono un grande impegno per mediare, risolvere conflitti, inventare soluzioni. Nessuno affronta queste difficoltà se non è proprio costretto, e se non dispone di tempi adeguati.

Riforma continua

Questo pone il problema delle riforme a ripetizione che non diventano mai vero cambiamento, e che sono una maggiori fonti di incertezza per le imprese. In Italia si fanno tante, tantissime riforme e poco, pochissimo cambiamento organizzativo. Per questa ragione, parlare di cambiamento organizzativo nelle amministrazioni pubbliche è un po’ imbarazzante. E’ da quando è stato istituito il Dipartimento della Funzione pubblica nel 1979 all’interno della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che nel nostro Paese vengono avviati programmi di riforma regolarmente lasciati incompiuti.

Fare riforme non significa necessariamente cambiare. Il virus della riforma continua senza cambiamento sembra essersi stabilmente inserito nel Dna della cultura politica e amministrativa. Sono quasi quarant’anni che le nostre pubbliche amministrazioni sono sottoposte all’accanimento riformatore1 attraverso una successione ininterrotta di riforme interrotte che non sono quasi mai arrivate alla fase della gestione. E’ come se un paziente entrasse e uscisse a ripetizione dalla sala operatoria cambiando ogni volta chirurgo, diagnosi e terapia. Nell’accanimento riformatore, come in quello terapeutico, c’è una sostanziale mancanza di rispetto per il soggetto su cui si interviene e soprattutto non c’è apprendimento, non c’è memoria, non c’è cambiamento. Scriveva vent’anni or sono Sabino Cassese tratteggiando questo modo italiano di fare riforme:

“Mentre in altri paesi le riforme fanno parte della gestione quotidiana della stato, in Italia esse hanno un’enfasi particolare, sono un capitolo a parte, costituiscono un fatto eccezionale… esse non sono preparate da diagnosi imparziali… qui le riforme sono precedute da dibattiti politici, accompagnate da articoli di giornale e interviste, con approssimazione, superficialità, senza fare un’accurata diagnosi del problema da affrontare…” Il tutto è accompagnato da una ritualità legislativa: “Se si fa una riforma si deve fare una legge”2

Oltre alle riforme senza cambiamento c’è l’altro tema ricorrente che giustamente sta a cuore alle imprese dell’alleggerimento del carico fiscale e contributivo, premessa e conseguenza di un taglio della spesa pubblica assorbita dalla macchina burocratica. Anche qui l’intervento di autorità esterne alla linea direzionale, i commissari alla spending review, si è dimostrato inutile e velleitario.

Come dimostrato dalla lunga serie di insuccessi, senza investire del problema una dirigenza legittimata nel suo ruolo e non commissariata da un’autorità esterna non si raggiungeranno risultati apprezzabili. Parafrasando Stafford Beer, un celebre cibernetico inglese che si è a lungo occupato anche di problemi aziendali e amministrativi, possiamo concludere che quando la razionalizzazione della spesa non è fatta da chi decide ma per chi decide si da al cambiamento il bacio della morte.